Un romanzo scritto in maremmano,
una storia che parla di calcio come metafora della vita quotidiana,
un libro pieno zeppo di immagini, di scatti descrittivi continui,
un atto d’amore verso la propria città.
Stefano Duranti, un carissimo amico che l’autore ha perso nel 2002,
prende vita in una mescolanza di aneddoti autobiografici
che parlano di curve, amici e spogliatoi.
Sentii il rumore che fa un palo quando ci sbatte forte un pallone. La traiettoria era dalla mia parte, veniva dalla mia direzione, sentii Trapattoni fischiare così forte che distolse la mia attenzione. Zoff era ancora a terra, balzò forte con un deciso colpo di reni. Mentre mi avventavo in scivolata su quella carambola sentii il suono del mio respiro e della mia foga. I tacchetti di Gentile affondarono il mio polpaccio sinistro che guadagnava il terreno e il fondo soffice del manto, quei sei ferri mi fecero subito male, ma non poterono atterrire quel mio istinto allenato a prevalere. Il suono di un popolo più debole in festa mi accese il calore di un’estasi, tipica dei momenti in cui si raggiunge un insperato risultato.
- Signor Duranti esca subito fuori da qui, se ne vada! Lei è fuori da questa squadra, ha capito o no?
Imboccai la porta d’uscita, non volevo restare altro tempo in quella stanza: si sentiva un odore di stufato, di ristagnante e chiuso come in certe vecchie scale condominiali.
Non c’avevo mai fatto caso prima, c’era un gagliardetto della squadra unionistica al muro:
U.S. GROSSETO 1912.