CARTOLINE DA LISBONA


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uglio Duemiladodici, l’estate è calda. Sembra strano, ma si può sentire freddo ugualmente.
La mia partenza è in chiaro scuro, contornata da ombre del momento che si sommano in fila e attendono. Lo stato d’animo non è dei migliori. Nella vita accade spesso questo crescendo, tocca galleggiare e adattarsi anche. Me l’ha detto un mio caro amico, scrivendomi una dedica dietro alla copertina di un libro di Pessoa che mi ha regalato. Gliene sono grato.

Mi vengono addosso col carrello della cena gli stewards sull’aereo che ci porta a Lisbona. Io, Emilio ed Arianna, tre giorni per staccarsi dal quotidiano vivere. Mi svegliano ripetutamente in fase di decollo e di atterraggio, facendomi notare il sedile reclinato che non va bene. Per fortuna il viaggio è breve, inoltre ho inettitudine da vendere e non me ne frega un bel niente dei loro rimproveri o del sorriso bello e prestampato della hostess, con profumo annesso ai frutti di tutto il mondo mescolati assieme.

Il Portogallo è terra d’antipasto per il Sud America, ne è l’anticamera.

Si respira un’atmosfera sospesa, un sapore antico ed arcaico, come una valigia addosso ad una parete con i panni da indossare ad attendere, come un timbro postale su una cartolina da spedire ai propri cari. Certi luoghi avanzano solo nelle date dei calendari o nei secondi che scandiscono il battito di un orologio.

Sdraiata sotto ad una bandiera grande e vasta che sventola sopra ad un colle, Lisbona  sembra protetta dall’alto. Il suo suono è musica classica, è un Fado, un’inno al riposo, alla maestosità del tempo e dei suoi luoghi. Il suono delle sue strade non è chiasso, ma vento lento di terra.

Mi porto dentro ugualmente tutto, seppur affacciato sull’Oceano o su di un fiume che le somiglia ma non è mare. E non c’è modo di perderlo questo bagaglio interiore, se non al pari di perdersi tra vicoli e strettoie, salite e ripide discese, luoghi dell’ Italia del Sud che ho vissuto. Scorci del Medio Oriente che non ho mai visitato, delle isole del Tirreno che ho amato e circumnavigato nelle estati giovanili. Torno in Spagna come nella Francia parigina di Mont-Martre, con i tetti di tanti colori e forme differenti. Scorgo i vecchi tram di Trieste, quel giallo che li distingue, le piazze desolate e assolate di Buenos Aires, con gli anziani a ripararsi con le mani gravi e i vestiti belli. C’è un sommarsi di razze, di colori, di odori, c’è un qualcosa di imprendibile come Rui Costa ed imperdibile come la povertà.

Un appartamento al terzo piano, con la luce che ci filtra dentro sino al tramonto e le voci del Barrio Alto che non cessano mai, che ci cullano, ci accompagnano e che la mattina dormono sino ad un’ora tarda, quando siamo fuori a percorrere già chilometri su chilometri.

Le mattonelle stile cucina delle mie due nonne, Michela e Giuseppina, fuori sui terrazzi, loro come queste piastrelle, sulle facciate delle case, in un gioco che è un’arte, un distinguersi, un vezzo originale di differenziarsi. Sembrano visi e facce tutte uguali e tutte diverse, come le nostre su questa terra. Le Azulejos le chiamano.

C’è un ponte rosso e lungo con una statua stagliata in cima che manca solo De Niro dentro ad una Cadillac con i sedili in pelle. E una cinepresa certo. C’è un castello con un vecchio che sembra un cow-boy casuale e una via con i panni stesi a prendere aria. Il lungo mare di Estoril mi affascina e mi parla dai finestrini del treno. Ci rivedo Amburgo e Livorno. Ci rivedo persone perse lungo il mio tragitto. Mi concentro sul vivere della gente, mi distraggo dove l’uomo m’affascina col suo scomposto percorso affannato e ironico. Per questo quando torno a casa, mia madre mi chiede sempre “Ma i monumenti come erano? Non c’erano luoghi famosi? La città era bella o brutta? Hai fatto solo queste di foto?”…